lunedì 30 agosto 2010

HANNO DETTO DI NOI... “ L’UNIVERSO DENTRO “ PER LE RAGAZZE MADRI.UN ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI. Prima accordi col banco alimentare e “Salva mamme” di Roma. ORTONA -


ARTICOLI DELL AGOSTO 2010 dal  “Il Messaggero” ed “ Il Centro”.
1 - “ L’UNIVERSO DENTRO “ PER LE RAGAZZE MADRI. di Daniela Cesarii

UN ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI. Prima accordi col banco alimentare e “Salva mamme” di Roma.
ORTONA - Nasce l'associa­zione "L'universo dentro". Il sodalizio, che non ha scopo di lucro, mira a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle pro­blematiche che incontrano le ragazze madri, a partire dalla fase della gestazione, e più in generale i genitori soli con minori a carico.
«Vogliamo contribuire a tutelare i diritti di queste cate­gorie, che sono in questo mo­mento svantaggiate, attraverso un lavoro di accoglienza e di ascolto -spiega la presidentessa Vittoria Camboni - Vogliamo fornire ai cittadini informazio­ni corrette sulle normative vi­genti, offrendo loro consulen­ze e sostegno operativo per atti legali o amministrativi cre­ando allo stesso tempo occasioni di incontro, di scambi di esperienze per favorire l'aggre­gazione sociale».
L'associazione vuole non solo contribuire a far si che le leggi vigenti vengano applica­te ma intende collaborare an­che alla formulazione di nuo­ve norme. L'intento è quello di varcare i confini locali per estendere il raggio d'azione su tutto il territorio nazionale. «L'UNIVERSO DENTRO" infatti ha già in atto collaborazioni con il Banco Alimentare e l'asso­ciazione "Salva mamme" di Roma e ha già contribuito ad aiutare una famiglia di Calta­girone. «IL NOSTRO È UN MOVIMENTO LAICO ED APARTITICO - aggiunge la vice presidente Luisa Anna Beozzo - Il nostro intento è dare una soluzione positiva a quei casi in cui viene spesso invece data una soluzione ne­gativa quale  l'aborto o l'affido del minore».
L'ASSOCIAZIONE a questo scopo vuole organizzare con­vegni, dibattiti, corsi, labora­tori, pubblicare stampati o supporti informatici, promuo­vere azioni di difesa proces­suale ogni qualvolta il genito­re solo sia vittima di maltratta­menti, persecuzioni. stalking. Spazio anche alla promozione e organizzazione di servizi e laboratori-fisici. Residenza non che possano essere uuái all'incontro e allo scambio di conoscenze.
«Promuoveremo eventi come mostre. proiezioni di film e documentari - precisa Guglielmo Zanetta socio del­l'associazione - Organizzeremo raccolte fondi e di supporto a favore di al­tre organiz­zazioni  che perseguano, senza scopi di lucro, finalità di solidarie­tà. Per questo abbia­mo intenzione  di stilare un albo con tutte le associazio­ni attive e operanti sai territorio
con cui poi collaboreremo
E' già attivo intanto il blogspot del­l'associazione all'indirizzo http//:luniversodentro.blog­spot.com    mentre si sta lavo­rando alla creazione di un nu­mero verde.

2 - IL CENTRO del 30 Agosto 2010. Di L.S.

ORTONA. Tirare su i figli da soli, da ge­nitore unico che, spesso, ricopre il ruolo «sia di mamma che di papà» non deve es­sere un problema, o uno svantaggio socia­le. E' quanto cercherà di realizzare l'asso­ciazione «L'universo dentro» di Ortona».
Associazione che intende operare anche a livello nazio­nale, per fornire assistenza alle famiglie mono-genitoriali. Categoria in cui vi sono le ragazze madri e più in generale genitori soli con minori a carico, ma verranno aiuta­te anche le donne che hanno subito violenze, soprusi o mancanze in vari ambiti, «proprio perché l'associazio­ne si pone come obiettivo la tutela dei diritti che negli ultimi tempi vanno sempre di più scemando», evidenzia G Zanetta, membro del movimento, «in autunno, organizzeremo anche un con­vegno in città sul tema dei di­ritti mancati». Ad entrare nel vivo della delicata que­stione, il presidente di «L'uni­verso dentro» Vittoria Cam­boni,«cercheremo di dare vo­ce al disagio delle persone che vivono una condizione difficile e che hanno scelta lo stesso la famiglia. Sensibiliz­zeremo l'opinione pubblica su questo argomento con va­rie iniziative e soprattutto le Istituzione a prendere provvedimenti».«l.s.)

giovedì 19 agosto 2010

LETTERE AD UN BIMBO.....

CONDANNATO a  MORTE  mi È PARSO di CAPIRE. di Roberto Ritondale
A parte una lieve imprecisione, oggi mi sento in forma. Mi sono pure fatto sentire da chi mi tiene prigioniero. Ho protestato. Non voglio più stare in isolamento, ho biso­gno di un contatto, uno spiraglio che mi permetta di af­facciarmi alla vita. Non potevano mettermi qualcuno, qui di fianco?
Fortuna che mi è possibile ascoltare qualche voce di tanto in tanto. Voci lontane: a volte impercettibili, altre volte più chiare. Ma sempre attutite da questa barriera che mi separa dal mondo.
Oggi ho sentito parlare di un mio antenato. Anche lui ha conosciuto gli stenti che soffrono tutti i prigionieri. A Parigi si guadagnava da vivere pulendo automobili con l'acqua ghiacciata. Lavorava insieme a un tale Sandro. Pertini, Sandro Pertini, mi è parso di capire. Guadagna­vano pochi franchi a testa e conducevano una vita mise­rabile. Influenzato da quel tipo, il  mio bisnonno diventò socialista e appena tornò in Italia lo arrestarono. Cospi­rava. Non so bene cosa voglia dire, comunque doveva essere un comportamento grave.
Ma io? Qual è la colpa che mi obbliga a restare chiuso in questo spicchio di buio che sembra senza fine? Io sono innocente, un'anima innocente. Eppure sto rin­chiuso in questa gabbia.
L'unica consolazione è la salute: sono davvero in forma, lo ha detto persino il medico. Anche se mi sento dentro una lieve imprecisione.
Suggestioni. Nulla è perfetto, mi è parso di capire
Oggi mia madre mi ha scritto. Una lettera tanto lunga quanto toccante, dannazione. Mi ha detto che sono la sua vita, sono il senso che illumina i suoi giorni.
Mio adorato Matteo,
quando finalmente potrò vederti, il cuore batterà all’'impazzata e le lacrime scioglieranno il mio rimmel e le mie paure. Non so se avrò la forza di guardarti subito ne­gli occhi, e non so se tu avrai il coraggio di affrontare subi­to il mio sguardo. Ma quando io troverò la forza e tu il coraggio, i nostri occhi si incroceranno e si scambieranno messaggi d'amore.
Sei la mia vita, Matteo. Sei il senso che illumina i miei giorni, che rende meno amaro l'atteggiamento ostile di tuo padre. Perché Enrico non mi ama più. Q semplice­mente, non mi ama abbastanza. Per questo confido nel tuo arrivo, Matteo: la tua presenza sarà fonte di gioia, con­divisione pura. Riscoprirò la voglia di famiglia. Scalfiremo i muri che ci separano e scolpiremo nella memoria quelle emozioni che avvicinano per sempre.
Non puoi immaginare quante volte ti ho sognato: dando forma all'idea, cullando le speranze. Ogni passo lo compio incollata al pensiero di te. Ogni sospiro è un alito di cielo sgombro di nuvole in cui lasciarti libero, libero di volare. Non vedo l'ora di abbracciarti stretto stretto e di strapazzarti Matteo. Ti adoro. Ti aspetto. La tua mamma Dora
Abbracci? Strapazzi? Lacrime miste a rimmel? Sarà meglio restare qui, mi è parso di capire.
i bambini nascono già stressati... È naturale! Io non ho un attimo di tregua, da mattina a sera.
Ma come ha fatto a sposarlo, mamma Dora? Sarà sta­ta costretta, magari da un voto alla Madonna o da un ricatto del demonio. Perché ha un diavolo per capello, mia madre, e una santa pazienza.
Mia madre ha preso appuntamento, il  ginecologo ci aspetta per le sei del pomeriggio. Gli chiederò un fa­vore: farmi uscire prima possibile da questo imbuto nero. Anche se ammetto che l'ultima notizia appresa mi ha rin­cuorato: lo stato di prigionia finirà tra circa cinque mesi. Sono più o meno a metà del cammino. Un altro po' e la mia mamma mi darà alla luce. E io scoprirò i colori e cosa vuol dire piangere e sorridere, imparerò a nutrirmi facen­do a meno di un cordone che si spezza.
Forse questo nido sicuro mi mancherà. È il destino dell'uomo, mi è parso di capire: rimpiangere ciò che è stato e che non torna più.
Ma davvero ricorderò con nostalgia la mia galera amniotica? Per ora non ci credo: è troppo grande la cu­riosità di conoscere i volti a cui appartengono le voci che ascolto, sempre più familiari. E poi voglio guardare in faccia quel pazzo di mio padre. Lui di solito non parla: grida. Alza così tanto e così spesso il volume delle sue conversazioni che mi verrebbe voglia di prendere le estre­mità del mio cordone e tapparmi le orecchie. Ma si può? Grida quando dormo, grida quando mi sveglio, grida quando mia madre coccola me e la luna. E poi dicono che
Sono felice: riesco a distinguere sempre meglio le vo­ci che attraversano la pancia di mia madre. Credo che avrò un udito straordinario. E sono felice anche perché oggi non ho sentito le urla di mio padre, ma la dolcezza inusuale di un tenero signore.
«Dora, sei più luminosa del solito» ha detto quel si­gnore. «L'espressione del tuo viso diventa sempre più dolce col passare dei mesi.»
«E vero, Carlo, ogni mese mi sento più bella.» «Sembri anche più giovane.»
«Giovane... forse stai esagerando.»
«Non hai ancora quarant'anni.»
«Ne ho trentanove, Carlo. Manca soltanto un anno. E mi manca il tuo amore.»
«Io non ho mai smesso di amarti.»
«Ma mi ami di un amore universale...»
«L'Universo è dentro di te, adesso che porti in grem­bo il mistero della vita.»
«E se questo figlio fosse tuo?»
«Sarebbe il dono più bello.»
«Fammi un regalo, Carlo. Toccami la pancia.»
Ho provato una strana sensazione. Mi è sembrato quasi che il signore accarezzasse me, ho avvertito un brivido gioioso. Nessuno aveva mai coccolato il ventre di mia madre. Nemmeno quel villano di mio padre che do­mani non potrà accompagnarci. Eppure è un giorno im­portante. È il giorno dell'esame. Amniocentesi, mi è parso di capire.
Lungo il tragitto che porta alla clinica, mia madre si è fermata perché assalita da un senso di nausea. Mi ha parlato, come spesso le capita.
«Matteo amatissimo, vorrei che tu sentissi l'odore di acqua e salsedine. Vorrei che tu potessi ammirare que­sta fortezza che sorge in mezzo al mare. Napoli è come un'oasi che disseta, mentre intorno c'è deserto, fame e desolazione. E la bellezza spunta nei luoghi più impen­sati, come il Castel dell'Ovo, che sembra affiorare dal mare al pari di una splendida Venere. Appena capirai, ti porterò qui a vedere quel foro nel muretto che affon­da le radici dentro l'acqua. Ho sempre pensato che quel buco rappresentasse il senso della vita: da una parte il mare aperto, dall'altra l'acqua stagnante. Una separa­zione che non è mai assoluta. Perché a Napoli tutto è contaminato. Attraverso quel foro, le acque si confon­dono e si mischiano, come plebe e nobiltà, come ricchi e straccioni, come le case borghesi e i bassi dei quartieri. Certo, se fuori c'è burrasca, dentro è sereno. Eppure, guardando attraverso il buco, non è possibile fingere indifferenza. Il fuori e il dentro sono in costante comu­nicazione. Proprio come me e te, uniti da un cordone che trasporta vita.
Matteo dolcissimo, che voglia di abbracciarti. Quan­do finalmente potrò farlo, ti stringerò forte come se il cordone ombelicale fosse ancorali intatto che gronda di travaglio e di sudore. Accarezzerò i tuoi capelli radi e le me mani screpolate. Ti riempirò di baci. Ho voglia di Allattarti, ho voglia di sentirti palpitare. Forza, Matteo. Ancora pochi mesi e i nostri cuori esploderanno di feli­cità, come se fosse festa a Piedigrotta.»

Mamma Dora mi aspetta, mi è parso di capire.

Mia madre è disperata. Ha pianto tutto il giorno. Ha cominciato ascoltando il ginecologo e non si è più fer­mata. C'è una lieve imprecisione nei miei cromosomi, un recesso di materiale genetico, mi è parso di capire.
«Trisomia del cromosoma 21» ha sentenziato il me­dico. In un primo momento ho creduto di essere un bim­betto fortunato: sempre meglio avere qualcosa in più che qualcosa in meno, mi sono detto. Ma sembra proprio che non sia così.
 «Signora, le anomalie nel numero dei cromosomi so­no frequenti» ha detto il ginecologo. «Riguardano il 9% (lei concepimenti».
«Non le credo, dottore: non vedo in giro tanti mon­goloidi.»
«Non vede bimbi Down perché nella maggior parte dei casi quelle anomalie sono incompatibili con lo svi­luppo dell'embrione, che infatti viene abortito in modo Spontaneo.»
«Potrei abortire anch'io?»
«Se si riferisce all'aborto spontaneo, sì: potrebbe ca­pitare.»
«E quello volontario?»
«La legge le consente di interrompere la gravidanza.» «Anche se ho superato il terzo mese?»
«Sì, signora. Ma questa è una decisione che può pren­dere solo lei, dopo una lunga, lunghissima riflessione.»
Adesso mia madre sta piangendo. Forse sta riflet­tendo. E forse mi sta odiando. Lo sento: ci sono ansia, dolore e rabbia nel suo respiro affannato. Nei suoi singhiozzi inconsolabili. Madre mia, io sono disperato. Se potessi, per non sentirti soffrire cercherei di mori­re ancor prima di nascere.
«Spero sia vero. Ho dovuto sospendere il consiglio di amministrazione.»
«Enrico, nostro figlio... Ha la sindrome di Down.» A un mongoloide?»
A Down.»
«Certo, ho capito: è un handicappato.»
«Sarà un diverso.»
«Non sarà niente, Dora: devi abortire. Domani chia­ma il ginecologo, senza perdere tempo.»
«Ma io ho bisogno di prendere tempo, Enrico. Vo­glio riflettere bene.»
«Io invece ho già riflettuto. Non voglio avere un figlio ritardato.»
A parte la lieve imprecisione, io continuo a sentirmi stranamente in forma. Stanotte non ho avvertito l'ansia di mia madre, che invece è esplosa tutta intera insieme al nuovo giorno. Sta spulciando libri, fascicoli, persino enci­clopedie. Mamma Dora ha letto che il primo a scoprire la malattia, nel 1866, fu un medico inglese: John Haydon Langdon Down. E ha letto pure che non ci sono cause conclamate. Ma lei si sente in colpa: più la madre è avan­ti con gli anni, maggiore è il rischio che concepisca un figlio Down. È un dato statistico, mi è parso di capire.
Continua a parlarmi ad alta voce, ma non c'è più dol­cezza. La tenerezza è scomparsa all'improvviso, sosti­tuita da un dolore che non le dà più pace.
«Si può sapere cosa ti è successo?» Mio padre è giun­to a casa infuriato.
«Sono disperata» ha risposto mia madre.
Ho sentito mamma Dora alzarsi all'improvviso. Credo che mio padre non si sia accorto di nulla. Raramente presta attenzione a mia madre, mi è parso di capire.
Ha bevuto un sorso d'acqua. Poi si è messa a scrive­re e, come sempre, ha riletto ad alta voce una nuova let­tera indirizzata a me.
Matteo,
perdonami, ma non so darmi pace. Non, trovo più la forza di immaginare la luce dei tuoi occhi. Non so sorride­re di fronte a questo dono della vita che è diventato uno schiaffo, una bestemmia.
Sarai diverso, Matteo. Sarai diverso da tutti gli altri. Forse non capirai. Non coglierai le tinte dei tramonti, non avrai stimoli e non me ne darai.
.Sei un traditore, Matteo. E mi hai colpita a freddo men­tre già assaporavo la mia felicità. Per me sei come morto. Perché è morto il bambino a cui ho parlato in tutti questi
mesi, non c'è traccia di quel batuffolo biondo che correva, sano e felice, in tutti i miei pensieri. t un lutto bianco quel­lo che porto dentro. Perché il mio bambino è morto senza che potessi mai vederlo. E al suo posto sei comparso tu, col tuo spreco di cromosomi.
Vorrei che tu morissi, Matteo, che morissi anche tu. Non desidero altro: la tua, la nostra morte. Perché? Perché Dio ha voluto mettermi alla prova? Che senso ha far nascere bambini emarginati, incapaci di godersi il cielo e le sue stelle? Credo che abortirò. Non voglio condannarti a vive­re un'esistenza stupida e infelice.
Dunque non nascerò. Sono stato condannato. Con­dannato a morte, mi è parso di capire.
Stanotte ho dato più calci che potevo. Volevo farmi sentire. Volevo far capire a mamma Dora che io mi sen­to in forma. A parte una lieve imprecisione.
Ma lei non ha capito. Non vuole capire. Perché sono diventato un insopportabile fardello. Non viviamo più in simbiosi. Ci siamo scissi, e io sono il peso di cui deve liberarsi.
La signora che mi porta in grembo – mamma Dora non esiste più – ha telefonato al ginecologo. “Ho riflet­tuto” gli ha detto. «Non vedo altre soluzioni: per la mia vita, per quella di mio figlio.»
Vita, vita, vita. Hai detto vita, appunto. Che soluzio­ne è la morte per una cosa che si chiama vita?
Ci siamo fermati in un posto silenzioso. Sento solo i passi di mia madre. Non vorrà mica commettere una sciocchezza? Dove siamo? Perché i rumori non si dif­fondono, non attraversano la pancia che mi è ostile? For­se sono nel luogo in cui vengono uccisi gli esseri non graditi. Forse è giunto il  momento di espiare la mia col­pa e cancellare la mia diversità.
Mamma, posso chiamarti mamma nell'ultimo mo­mento? Mamma, ti prego, se è proprio necessario soppri­mere il mio cuore e il mio cervello, fallo. Ma non farti del male. Tu non hai colpe, mamma. Io lo so, tu sei giovane e forte. Sicuramente bella. La Trisomia è solo colpa mia, so­no io che ti ho ingannato e ho rubato il posto di Matteo.
Posso solo ringraziarti, mamma. Insieme siamo stati così bene! Sei stata dolce e mi hai nutrito. Ammazzami, mamma, ma non ammazzarti con me. Te lo chiedo, ti im­ploro... Mamma, ti voglio bene.
Sento altri passi. Ascolto una voce. La riconosco: è quella del tenero signore che aveva accarezzato la pan­cia di mia madre.
«Abbracciami, Carlo.»
«Cos'è successo, Dora?»
«Solo tu puoi liberarmi dal dolore.»
«Quale dolore?»
«Dimmi che mi ami, dimmi che mi ami ancora.» «lo amo tutti quelli che vengono qui, nella casa del Signore.»
«"Ti lascio per un amore più grande" mi dicesti.» «Immenso. L'amore di Dio è immenso.»
«Allora chiedi al tuo Dio perché ha voluto che mio figlio fosse diverso.»
«Siamo tutti diversi. Non c'è nulla di veramente uguale, nulla che possa dirsi identico. Persino tra gemel­li c'è qualche cromosoma...»
«Cromosoma 21. Trisomia del cromosoma 21, Carlo. Mio figlio ha la sindrome di Down.»
Mia madre scoppia in lacrime. Il signore le mette di nuovo la mano sulla pancia. Sta accarezzando il suo ventre. Sta consolando me.
«Dora dolcissima, tuo figlio è stato e sarà sempre un do­no della vita. È grazie a lui che scoprirai quanto amore c'è al mondo.»
«lo non voglio che questo bimbo venga al mondo.»
«Non ci credo. Ti conosco bene, non saresti capace di uccidere tuo figlio. Tu sei nata per diventare madre».
«Ma che ne sai? Che ne sai tu, padre Carlo? Padre... che ridicoli che siete, vi fate chiamare padri e nemme­no sapete cosa vuol dire concepire un figlio.»
Domani è il giorno del patibolo, mi è parso di ca­pire. Il mio stato d'animo muta di continuo, rapida- mente. Sembra sia normale, lo ha detto il ginecologo. Oggi mia madre ha voluto sapere come sarei se mi faces­se nascere.
«Il comportamento dei bambini Down è instabile. Hanno difficoltà nell'uso della parola. Rapportarsi alla realtà è per loro estremamente complicato.»
«Non c'è... non ci sarebbe stata possibilità di aiutarlo, se mai fosse venuto al mondo» ha commentato mamma Dora, quasi per consolarsi.
«All'inizio, mi creda, sono i genitori ad avere bisogno
del maggiore aiuto. Perché la loro ai             risultare dan
nosa per lo sviluppo del bambino.»
«Uno sviluppo lento, molto lento...»
«I tempi lunghi riguardano soprattutto funzioni corticali superiori: linguaggio, movimenti connessi...»
«Una vita infernale.»
«Ma no, signora, l'inferno è un'altra cosa. uo figlio può...»
«Avrebbe potuto...»
«Suo figlio... potrebbe sviluppare grandi capacità in alcuni ambiti particolari. Ad esempio, potrebbe esibire un talento straordinario attraverso la musica, i colori...» «Sarebbe in grado di distinguere le tinte di un tra­monto?»
«Anche quelle dell'alba.»
«Ma sarebbe sempre un diverso.»
«Dipende dai genitori e dalla scuola: è importante considerare il bambino Down alla pari degli altri.»
«Io non ne avrei la forza. Ci vediamo domani, dottore. Alle otto in punto.»
Mia madre non riesce a dormire. Nemmeno io. Prima di andare a letto ha di nuovo discusso con mio padre. Ha provato a valutare la possibilità di lasciarmi nascere, di lasciarmi vivere. Ma mio padre l'ha zittita.
«Non pensi alle nostre vite? Il lavoro, gli impegni, il tempo che già ora non basta mai. Ti immagini, tu, a tra­scorrere gran parte del giorno accanto a un handicappato? Tu sei una donna in carriera, Dora. Una donna di successo. L'azienda ha puntato su di  te. Non puoi distrarti proprio adesso che hai in pugno l'obiettivo a cui hai sempre mirato. Hai già dimenticato tutti i sa­crifici di questi anni? Vuoi buttarli al vento? E per chi? Per cosa? Per un essere che non capisce, che non saprebbe apprezzare rinunce e sacrifici? Non è giusto: non abbiamo il diritto di mettere al mondo un infe­lice.»
Mio padre l'ha convinta. Ha convinto anche me. Perché mai dovrei nascere? Quale sarebbe il senso della mia vita? Quale il mio scopo? Lo sta scrivendo proprio ora, mamma Dora. È la sua ultima lettera, mi è parso di capire.
Matteo carissimo,
stanotte ti dico addio. Ho la mente che scoppia e il cuore che mi duole. Ho riflettuto e pianto, piccolo mio. Ma non posso annientare la mia esistenza per un bambino che non saprei mai amare. Saremmo entrambi infelici, persi nel nostro dolore e distrutti dall'ignoranza e dall'indiffe­renza della gente.
Qui fuori c'è un mondo che corre troppo in fretta, che non rispettai malati, non tollerai diversi. È un mondo creato per i sani, che sa apprezzare i belli e gli efficienti, stende tappeti rossi davanti agli uomini potenti e veli pie­tosi sugli emarginati.
Che madre sarei se ti facessi nascere in una società che non sa più aspettare? Per questo stasera ti dico addio. E te lo dico con la morte nel cuore
Oggi mio padre ha trovato il tempo per accompa­gnarci. Ci siamo svegliati tutti molto presto. Forse abbiamo solo finto di dormire. Nessuno ha chiuso occhio, mi è parso di capire.
Non sento parlare, sento solo rumori. Meglio così. l'osso abituarmi subito al silenzio della morte. Sto per persino evitando di tirare calci, stamattina. Anche mamma Dora deve abituarsi alla mia assenza, non voglio farle pesare la mia voglia di vivere. Perché sì, ho capito che avrei voglia di venire al mondo. Nonostante una lieve imprecisione, io non sarei infelice. Saprei godermi tutto quello che mi sarà negato: gli odori, i colori, i brividi e le stelle. Avrei voglia di perdermi almeno per un istan­te nella luce. Aprire gli occhi. Sentirmi stringere tra due braccia calde.
Siamo in automobile, ne riconosco il rombo un po' nervoso. Mamma e papà continuano a tacere. Il tragit­to che ci separa dalla clinica non è molto lungo, eppu­re sembra a tutti interminabile.
Il mio piccolo cuore sta battendo forte. Se sapessi piangere, credo che lo farei. Cerco di stare immobile, di rispettare il ventre di mia madre, di avere cura di questo nido che mi ha tenuto caldo.
lo non ti odio, mamma. Proprio non ci riesco.
Mi scappa un calcio. Mia madre se ne accorge. Non reagisce, se non con un singhiozzo. Non posso vederla, ma so che sta piangendo. Vorrei che fosse forte, che non cedesse al peso delle emozioni.
L'auto si ferma. Mia madre resta immobile. Mi scappa un calcio, e un altro, e un altro ancora. Scusami, mamma, non ce la faccio più a non muovermi. Mi senti? È il mio saluto. Volevo salutarti come posso, a modo mio. Ma... questa è la tua mano, mi stai accarezzando. Mi hai capito. Sì, mi hai sentito.
Mi stai dicendo addio.
Un soffio. Due soffi. Tre soffi. Quattro soffi. Cinque soffi. Sei soffi. Sette soffi. Otto soffi. Nove soffi. Dieci soffi.
Mica semplice spegnere dieci candeline. Però ci sono riuscito. E mia madre ha sorriso. È bellissima quando sorride. Come quando la chiamo «tesorino». Lei mi stringe e mi dice: «Non mi lasciare mai».
Alla mia festa di compleanno ci sono proprio tutti: mamma Dora, i cuginetti Giacomo e Rachele, zia Ni­coletta, zio Sandro e zio Francesco. Papà Enrico non è venuto. Non lo vedo da sei anni, ma non sento la sua mancanza. Non mi mancano i suoi silenzi, e nemmeno le sue urla.
Quando finirà la festa, come sempre, la mamma mi porterà a passeggio vicino a Castel dell'Ovo. Oggi mi spiegherà una cosa importante, ha detto. Io vorrei impa­rare il segreto per costruire un castello di sabbia ugua­le a quello. Chissà se ci riesco.
Adesso vogliono sentirmi suonare. Mi piace tanto suonare: mi sento vicino a Dio. E mamma Dora sorride orgogliosa. È orgogliosa di me. L'ho scoperto leggendo il suo diario. Ha scritto:
Accanto a Matteo mi sento migliore. Non è stato fa­cile, ma ho imparato a guardare il mondo con gli occhi dell'innocenza e a non aver paura della diversità. A parte
È una lieve imprecisione, Matteo è un figlio meraviglioso. il senso che illumina i miei giorni. Mia madre mi ama, mi è parso di capire. E  nel suo abbraccio soffice mi sento forte, tenero e felice.

lunedì 2 agosto 2010

RIBELLARSI AL DECLINO. LA LOTTA DELLE FORMICHE

RIBELLARSI AL DECLINO
LA LOTTA DELLE FORMICHE
DISAGI E SPERANZE NEL PAESE DEI NESSUNO QUELL’ITALIA CHE FA ANCORA IL PROPRIO DOVERE
BUONGIORNO. SONO IL SIGNORE CHE PAGA IL BIGLIETTO DEL TRAM. La volontaria che assiste gli anziani soli. Il cittadino che non evade le tasse. La signora che chiede per favore. Il pensionato che fa la coda negli uffici. La dirigente che sa ascoltare. Il medico che non guarda l’orologio. L’artigiano che non bara sui conti. Lo studente che non crede alle lotterie.
IO NON SGOMITO. NON APPAIO. NON CERCO SCORCIATOIE. Non mi arrendo. Lavoro a volte anche per gli altri. Mi fermo sulle strisce. Non getto mozziconi nelle strade. Aspetto il mio turno per parlare. Non parcheggio sul marciapiede e neanche in seconda fila. Faccio il mio dovere. Studio, perché penso sia importante per vincere i concorsi. Vado a votare e non al mare. Mando i miei figli alla scuola pubblica. Non penso a veline o tronisti. A volte inseguo le mie passioni..
LETTERE DAL PAESE DEI NESSUNO, DALL’ITALIA DEI (CITTADINI) DIMENTICATI che scrivono ai giornali per avere una speranza e riassumono il declino di un vivere comune, intaccato da una terribile domanda: ma chi te lo fa fare? Giovani che si spaventano: «Ho paura per il futuro mio, del mondo, di tutti, non riesco a vedere il prosieguo della storia che il presente ci sta raccontando» (Martino, vent’anni). Anziani che si deprimono: «Sono avvilita, disgustata. Tutti rubano, tutti mangiano, tutti si fanno appoggiare o raccomandare. Se non sei così ti tagliano fuori » (Barbara, settantacinque anni). Ragazzine che si interrogano. Come Giulia. Storia esemplare che non fa notizia, ma indica il retropensiero che aleggia su di noi quando prendiamo un impegno: ne valeva la pena?
PER TUTTO L’ANNO, FINITE LE LEZIONI, DUE VOLTE LA SETTIMANA, GIULIA SI FA CINQUANTA chilometri per frequentare la scuola di ballo più famosa d’Italia. E dopo due ore alla sbarra e cinquanta chilometri di ritorno, è di nuovo a casa a fare i compiti. È brava, in classe e nella danza. Non ha tempo per playstation, Xbox, non si stordisce davanti alla tv. La vedi in giardino alla prima chiazza di sole esercitarsi nei passi e nelle ruote: su una mano, su due mani, di lato. Se riuscirà a continuare sarà ammessa alla frequenza quotidiana: vorrà dire la scuola, poi cinquanta chilometri, la lezione alla Scala, altri cinquanta chilometri, i compiti e così via, salvo i giorni delle prove per gli spettacoli, quando sarà impegnata fino a sera. Per anni e anni, ogni anno nel timore di non passare: pena l’esclusione dalla scuola di danza.
GIÀ DA ORA QUALCHE AMICA COMINCIA A NON CAPIRE. Si domanda il perché di tanto impegno, tanto stress, tanta fatica. Si chiede perché Giulia si diverta ad andare avanti e indietro rinunciando a molte cose divertenti, quando basta apparire in una trasmissione tv o ancheggiare un po’ per raggiungere lo stesso obiettivo: uscire dalla mischia, avere un posto in prima fila. Si spendono milioni di euro in tv per valorizzare pupe, veline e anche velone. E si sbeffeggia più o meno involontariamente chi ha scelto un impegno, chi fa coscienziosamente il proprio lavoro. «Pagano ancora il sacrificio, lo studio, la fatica in questo Paese?», è la domanda che Giulia invia nel pozzo delle mail, cercando una non scontata risposta.
C’ERA UNA COME LEI UNA VOLTA A MILANO. Era figlia di un tranviere. Coi sacrifici e con il talento è diventata Carla Fracci. Ma non c’è più il futuro di una volta, scrivono oggi i writer sui muri. Nel paradosso temporale di un graffito il semiologo Francesco Casetti legge il bisogno di un’aspettativa non banale. «Si invoca il futuro, che non c’è ancora, non a partire dal presente, ma dal passato che non c’è più. Ieri c’era il senso del domani: oggi questo senso manca. E si deve andare a ciò che non c’è più (lo ieri) per poter recuperare ciò che non c’è ancora (il domani)».
BISOGNA AFFIDARSI ALLA MEMORIA, allora, perché le opportunità non stanno nell’orizzonte geografico dei vari Nessuno che rumoreggiano dalle caselle della posta. Rispetto a ieri, la ragnatela di intrallazzi ha inquinato l’aria e ristretto i confini del galateo civico, come ha scritto Sergio Romano. «Il declivio del nostro vivere comune è intaccato dai comportamenti scorretti, a volte spregevoli, diventati prassi abituale», è la tesi di Maurizio Viroli, che alla decadenza delle buone pratiche ha dedicato una lunga riflessione e un libro dal titolo esplicito (La libertà dei servi, Einaudi).
«QUANDO SI DIRÀ CHE C’È UN PAESE ANCHE PER I NESSUNO CHE TIRANO LA PIALLA?», sollecita una dottoressa che a quarant’anni ha strappato il contratto definitivo di assunzione. Le donne in medicina faticano parecchio a trovare un posto, scrive: quando sono brave e competitive, non allineate allo standard della rampante o dell’amica del boss, le stroncano subito. Se hanno dei figli vengono penalizzate. Se si danno troppo da fare vengono redarguite. Se non si allineano, sono emarginate. Il mobbing nei reparti è prassi abituale. Senza sponsor politici negli ospedali difficilmente si fa carriera...
SI VAGHEGGIA UN NEW DEAL CIVICO, LA SCOPERTA DI NUOVI EROI. Si chiede un sussulto alla politica. Massimiliano Panarari, docente di Scienze politiche all’Università di Modena (L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi) profetizza l’abbattimento dell’impasto micidiale che alimenta la sottocultura e l’antipolitica. Ma non a breve: «La visione del mondo in Italia è basata troppo sull’irrealtà». Lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli è ancora più scettico: «Io ho paura che questa società non si domandi più nulla, chieda solo e soltanto tecnologia: la tecnologia svuota, modifica i comportamenti, ci indica quel che serve a sopravvivere bene ma non risolve il senso della vita. A poco a poco stiamo diventando dei primitivi tecnologizzati in una civiltà dell’ingiustizia».
POVERI NESSUNO, ABBARBICATI ALLA SPERANZA DI UN PAESE NORMALE dove buongiorno, come diceva Zavattini, vuol dire davvero buongiorno. Formichine inattuali nel generale appiattimento verso la società della convenienza, che rischiano di essere schiacciate tra scarpe gigantesche e pietraie desolate, come immaginava vent’anni fa Anna Maria Ortese in un memorabile racconto milanese. Un bimbo, scivolato per disgrazia sotto le ruote di un tram, che offre al padre angosciato una riflessione fulminea sul senso della vita: «Noi siamo come le formiche, vero, papà?».
BISOGNA FORSE DIRE «BASTA!», come fa il designer Giancarlo Iliprandi che dal Politecnico di Milano teorizza un movimento culturale per cambiare aria e mette tra i capifila un grande centenario come Gillo Dorfles. «Basta a quello che non ci piace/ Basta senza sporcare i muri/ Basta per comunicare la voglia di cambiare».
O CHIAMARSI FUORI, COME LUCA GOLDONI, investigatore di lungo corso dei comportamenti nazionali, che a un certo punto si è reso conto di non abitare più nello stesso Paese in cui era nato. «È successo quando ho letto di una telefonata intercettata tra l’amica di un politico e un’ex compagna di classe in attesa di un provino tv. "Non c’era verso di farmi dare un contratto", diceva una. E l’altra: "E come hai fatto a ottenerlo?". "Non c’era modo di convincerlo". "E allora?". "E allora gliel’ho data"».
NON IMPORTA CHI SEI, MA CHI CONOSCI, si filosofeggia dai blog studenteschi. Servirebbe un antivirus alla cultura della convenienza, «perché se non ricostruiamo una società fondata sui doveri reciproci non sapremo nemmeno più godere dei nostri diritti », spiega Viroli. Servirebbe qualche gesto di coraggio in un Paese ricattato dall’egoismo e dalle cricche. «Cominciamo a difendere i Nessuno mettendo qualche sassolino nelle scarpe dei grandi — dice don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus — e facciamo qualcosa per le vite di scarto, magari scuole per i bocciati da questo sistema poco umano, come don Milani a Barbiana». Esempi, responsabilità, impegno, pulizia morale: l’unico parametro legalmente riconosciuto non può essere quello del denaro, scrivono in tanti. Poi un cittadino indignato lascia cadere una domanda. «Chi è arrivato in alto con gli intrallazzi, può avere soprassalti morali?». Noi, come le formichine della Ortese, dobbiamo sperare. Ma è legittimo dubitare.
Poi un cittadino indignato lascia cadere una domanda. «Chi è arrivato in alto con gli intrallazzi, può avere soprassalti morali?». Noi, come le formichine della Ortese, dobbiamo sperare. Ma è legittimo dubitare.
Da il Corriere della sera Giangiacomo Schiavi 
Poveri Nessuno, abbarbicati alla speranza di un Paese normale dove buongiorno, come diceva Zavattini, vuol dire davvero buongiorno. Formichine inattuali nel generale appiattimento verso la società della convenienza, che rischiano di essere schiacciate tra scarpe gigantesche e pietraie desolate, come immaginava vent’anni fa Anna Maria Ortese in un memorabile racconto milanese. Un bimbo, scivolato per disgrazia sotto le ruote di un tram, che offre al padre angosciato una riflessione fulminea sul senso della vita: «Noi siamo come le formiche, vero, papà?».
Bisogna forse dire «Basta!», come fa il designer Giancarlo Iliprandi che dal Politecnico di Milano teorizza un movimento culturale per cambiare aria e mette tra i capifila un grande centenario come Gillo Dorfles. «Basta a quello che non ci piace/ Basta senza sporcare i muri/ Basta per comunicare la voglia di cambiare».
O chiamarsi fuori, come Luca Goldoni, investigatore di lungo corso dei comportamenti nazionali, che a un certo punto si è reso conto di non abitare più nello stesso Paese in cui era nato. «È successo quando ho letto di una telefonata intercettata tra l’amica di un politico e un’ex compagna di classe in attesa di un provino tv. "Non c’era verso di farmi dare un contratto", diceva una. E l’altra: "E come hai fatto a ottenerlo?". "Non c’era modo di convincerlo". "E allora?". "E allora gliel’ho data"».
Non importa chi sei, ma chi conosci, si filosofeggia dai blog studenteschi. Servirebbe un antivirus alla cultura della convenienza, «perché se non ricostruiamo una società fondata sui doveri reciproci non sapremo nemmeno più godere dei nostri diritti », spiega Viroli. Servirebbe qualche gesto di coraggio in un Paese ricattato dall’egoismo e dalle cricche. «Cominciamo a difendere i Nessuno mettendo qualche sassolino nelle scarpe dei grandi — dice don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus — e facciamo qualcosa per le vite di scarto, magari scuole per i bocciati da questo sistema poco umano, come don Milani a Barbiana». Esempi, responsabilità, impegno, pulizia morale: l’unico parametro legalmente riconosciuto non può essere quello del denaro, scrivono in tanti. Poi un cittadino indignato lascia cadere una domanda. «Chi è arrivato in alto con gli intrallazzi, può avere soprassalti morali?». Noi, come le formichine della Ortese, dobbiamo sperare. Ma è legittimo dubitare.
Giangiacomo Schiavi
18 luglio 2010(ultima modifica: 20 luglio 2010)